Pubblicato su Vivi Grosseto
31
maggio 2012
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riservata
ANNALISA
SIGNORE
Intervista
Questa
è la prima di una serie di interviste che farò agli artisti –
pittori, scultori e fotografi - che parteciperanno alla prima
edizione dell'evento “Via Vai” che si terrà a Grosseto dal 16 al
23 giugno 2012, organizzato e curato da me (Antonia Pesare) e pensato
da Giulia Cantelli.
L'Ass.ne
Grossetana Arti Figurative ospiterà, durante quei giorni, le opere
di artisti provenienti da diverse città italiane: “Via Vai”,
infatti, nasce per dare la possibilità a tali artisti di potersi
incontrare, mostrare le proprie opere gratuitamente, confrontarsi e
scambiarsi opinioni riguardo l'arte e la cultura in genere.
La
prima ad essere intervistata è Annalisa Signore - giovane artista
lucana - che in tale occasione esporrà due opere: “Diversamente
stante” e “Tra Adamo ed Eva è il serpente che mangia”.
Annalisa
cerca di raccontarsi producendo opere che si servono del
supporto per creare rapporti tra simboli, cromie, spessori e contorni
netti. In
alcuni casi l’idea è lì che aspetta di prendere forma, in altri
si delinea anche dopo qualche anno. Fondamentale
per l'artista è stato il codice visionario di Bosch, il mondo
onirico di Odilon Redon, ha studiato le forme ondulate di Edvard
Munch e gli scenari sospesi e silenti di William
Degouve De Nuncques, senza rinunciare al decorativismo klimtiano e
alle trasparenze di Morris Luis.
Benvenuta
Annalisa, grazie per aver accettato il mio invito.
Cominciamo
con una domanda semplice: sei un'artista autodidatta oppure alle
spalle hai anni di studi?
Alle
spalle ho una propensione per la comunicazione fatta d’immagini che
mi accompagna fin da piccola e che spesso è divenuta la mia prima
lingua, il mio idioma. Per perfezionarla e ordinarla ho avuto bisogno
di un alfabeto coerente che ho appresso frequentando una scuola
d’arte. Negli anni dell’università la mia forza espressiva ha
ceduto il posto ad una passione per la conoscenza consapevole e la
tutela di tutto ciò che riguarda l’arte e la cultura, una sorta
d’iniziazione propedeutica che però non è bastata: in tutto
questo tempo ho lavorato solo per me stessa per mezzo di un
repertorio fatto di esercitazioni autoreferenziali. Da un anno circa
ho incominciato a riconoscere tutti i miei limiti e le mie debolezze,
avviandomi concretamente al confronto con il fruitore, con un altro
sguardo che non fosse il mio o di una persona a me cara.
Nelle
tue opere il colore è molto presente. A volte ne contrapponi due, o
uno solo, che fanno da sfondo al soggetto principale. Cosa mai lo
utilizzi per lo sfondo in questo modo?
I
colori sono in genere i protagonisti principali della nostra
percezione, gli oggetti, gli ambienti e gli spazi che ci circondano e
in cui viviamo sono in gran parte colorati e per questo fin
dall’antichità sono stati associati ai sensi, oltre che a svariati
stati d’animo, emozioni o a una simbologia più complessa. Le
cromie nei miei lavori servono a definire, in maniera immediata,
l’azione o il principio che vi regna.
Ho
notato che spesso si tratta di scene dotate di un'apparente calma e i
soggetti sembrano perdersi nel vuoto...lo spazio intorno è fatto di
ombre, persone che sembrano attendere qualcosa o qualcuno. Cosa vuoi
rappresentare?
Quella
che credo sia la necessaria esistenza dei contrasti. Non mi piacciono
le “mezze misure”, a queste preferisco un gioco di opposti che
rimanda all'essenza di ogni universo: la convivenza inevitabile tra
positivo e negativo. La presenza dell'uno decreta, per conseguenza,
quella dell'altro. In altri termini, l'umanità è collegata alla
divinità, come il tempo all'eternità, il visibile all'invisibile e
il terrestre al celeste.
I
toni sono per me indispensabili proprio perché, adducendo alla
teoria dei colori, se accostati, istantaneamente generano una sorta
di spazio dato dalla complementarità delle cose. Come non
richiamarsi alla teoria dello Yin e dello Jang che attraverso la
suddetta alternanza classifica ogni fenomeno naturale.
I
tuoi ritratti sono quasi sempre sono frontali: chi o cosa guardano i
personaggi ritratti? Qual'è il loro stato d'animo e cosa vuoi
comunicare con tutto questo?
Gli
occhi ritratti che guardano te e il fruitore in generale rivelano un
dialogo, chiedono all’osservatore una considerazione approfondita.
Ci son occhi che non guardano e altri che alludono ad una riflessione
personale che non necessità di contatti esterni.
Le
tue donne sono a volte dipinte in primo piano, altre volte risalta un
particolare e mancano le gambe. E' come se tu avessi una forte
curiosità e desiderio di dominare la realtà ma contemporaneamente
qualcosa ti frenasse.
Il
particolare e il primo piano sono motivo di indagine e riflessione,
di contemplazione su una parte a cui rivolgo la mia curiosità e che
in un lavoro specifico rimanda al tema più generale. Poi mi piace il
dettaglio, osservo molto e poco per volta.
Secondo
te, quale compito ha l'artista oggi?
Quello
che ha avuto e che dovrebbe sempre avere, trasmettere una verità
antichissima, ma sempre attuale: “Godimento
che l'artista trae dalla sua arte nel corso di tutta la sua vita e
gioia che lo spettatore avrà 'per sempre' dall'opera bella:
godimenti che dipendono entrambi dalla misura in cui la cosa da fare,
o quella che è stata fatta, non è soltanto un oggetto materiale, ma
è viva
nell'artista, in quanto creatore o in quanto spettatore”. Ananda
K. Coomaraswamy
si è espresso per me.
Ti
senti esclusa o partecipe dell'attuale società artistica?
Non
mi sono mai posta la questione.
A
“Via Vai” presenterai “Diversamente stante”. Cosa rappresenta
questa tua opera?
“Diversamente
Stante” rappresenta un’indagine personale sulla convivenza tra la
società e l’individuo affetto da disturbi mentali. Nel
pannello, suddiviso in due settori, si vuole descrivere il tipo
d’approccio, la posizione e la condizione che vigono nel rapporto
tra l’insano e la collettività. La presenza dei manichini rimanda
al comportamento comune della massa, in cui si è spesso indotti a
seguire gusti, condotte e stili uniformati per mantenere il proprio
ruolo sociale ed evitare emarginazioni. Si evince il diffuso
desiderio di accettazione dagli altri e l’incapacità di affrontare
un reale confronto identitario.
L’immagine
del malato è visibile sul lato sinistro (per mezzo di una sagoma) e
separata dal resto della composizione: il modo più semplice e
condiviso di sostenerlo è quello di ignorarlo, di fingere che non
esista, sottraendo la questione a se stessi.
Il
riquadro di sinistra designa una persona mentalmente instabile
figurata al centro e in maniera più realistica, proprio perché essa
manifesta inevitabilmente quello che è, non mostrando sovrastrutture
alla propria immagine esterna ed interna. Le sagome attorno
(speculari a quelle dell’altra porzione) contestano la sua
collocazione possibile nella società (“esisto, anche se gli altri
vivono del contrario”) e rivelano – attingendo al modello
bio-psico-sociale – il condizionamento e l’incidenza che questa
può produrre nel soggetto.
Il
colore giallo indica la stato di follia, ma è spesso associato al
senso d’identità, all’Io. Il viola, suo complementare
(complementarità, compresenza di opposti son elementi della mia
cifra stilistica), è frequentemente riconducibile ad espressioni di
forma negativa.
libero
Dott.ssa
Antonia Pesare, Storico dell'Arte
31
maggio 2012
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